Archeologia sperimentale: proposta per una deontologia operativa

I tesori degli archeologi

Nell’immaginario collettivo l’archeologia è quell’ occupazione per pochi eletti che si possono permettere di continuare a giocare con la preistoria e la storia. Anche la moderna iconografia contribuisce a mantenere quest’aura di fiabesco nei riguardi delle Scienze Archeologiche, come oggi ci si dovrebbe riferire al grande ambito dell’Archeologia.

Gli archeologi non sono più notabili o ricchi signori che si potevano permettere di dissipare patrimoni alla caccia di tesori o improbabili sprovveduti seducenti come l’affascinante attore che interpreta Indiana Jones e ancor meno vengono a trovarsi in situazioni spaventose come quelle proposte da pellicole tipo La Mummia.

Assicuro che ciò che un archeologo considera tesori per la maggior parte della gente sono semplici sassi, ossa, cocci, pezzi di muro, che molto raramente, gli archeologi hanno un aspetto anche solo lontanamente somigliante al fascinoso Indy e che l’unica cosa che può spaventare è la compilazione dei cervellotici Matrix di Harris o di schede piene di misure!!! Molto più prosaicamente, tutti i giorni ho a che fare con i manufatti prodotti dall’uomo preistorico a partire da circa 1 milione di anni fa.

Già, tanto antica è la presenza dell’Uomo in Italia e più in generale nel bacino settentrionale del Mediterraneo, semplici schegge o al massimo rozzi raschiatoi e denticolati che non possono certo essere guardati come tesori. Proprio questa constatazione porta speso gli archeologi ad avere difficoltà a comunicare al grande pubblico il significato dei semplici e spesso bruttini oggetti, che rappresentano le tracce delle attività quotidiane degli uomini della preistoria.

La crisi provocata dalla presa di coscienza che non è possibile giungere a una comprensione totale della documentazione archeologica, soprattutto applicando gli statici approcci della tipologia e della morfometria, è stata in parte risolta dal fatto che finalmente gli archeologi hanno realizzato che i reperti archeologici vanno visti attraverso la lente di un processo evolutivo, non sempre continuo, ma spesso accelerato da particolari pressioni adattative o speculative.

In realtà, guardati con occhi diversi, dei semplici oggetti in selce contengono un tesoro: le informazioni che sono scritte su di loro attraverso un linguaggio che può essere interpretato attraverso i dati dell’Archeologia sperimentale.

La ricostruzione sperimentale

Il percorso analitico, che viene svolto attraverso la ricostruzione sperimentale di un processo archeologico, destruttura il processo stesso. Apparentemente smontare i singoli momenti può comportare una perdita di informazione, in realtà comprendere il meccanismo nei singoli e consequenziali passaggi permette una ricostruzione fenomenologica completa e una più concreta interpretazione del manufatto, non più visto come il momento ultimo, ma come il risultato di interazioni dinamiche tra la progettualità, la capacità di realizzazione e il prodotto finito.

Ecco quindi la necessità di ricercare informazioni attraverso i dati desunti da analisi mirate, le così dette scienze sussidiarie:

  • materie prime: caratterizzazione e provenienza;
  • tecniche di produzione: scheggiatura, ritocco, manifattura;
  • determinazione funzionale: analisi delle tracce d’uso, analisi dei residui; specializzazione della produzione.

Con questo termine l’insieme di fasi analitiche che permettono di ricostruire un oggetto/fenomeno nel suo divenire e non la semplice riproduzione a scopo propagandistico di un contesto, si deve fondare su una corretta integrazione dei dati provenienti dalle analisi di partenza e di confronto. Va inoltre ricordato che comunque una ricostruzione completa del fenomeno è praticamente impossibile in quanto i processi di formazione e di trasformazione di un contesto archeologico sono influenzati da fattori e dinamiche spesso sconosciuti.

Le analisi applicate allo studio dei contesti archeologici, effettuate da personale esperto che deve necessariamente aver avuto un lungo training accademico, devono precedere le fasi indagative di archeologia sperimentale. I manufatti prodotti sperimentalmente devono subire lo stesso processo analitico per poter comparare empiricamente i processi trasformativi di causa/effetto interagenti La provenienza della materia prima è fondamentale per impiegare, nella produzione dei manufatti, lo stesso tipo di selce che si riscontra nel sito da studiare (DIA RT Francesca Bonci). Le tecniche di produzione applicate e quelle di trasformazione sono anch’esse il risultato di analisi diretta del reperto archeologico.

Le analisi funzionali vengono poi condotte attraverso l’osservazione microscopica e ultramicroscopica delle superfici funzionali, le analisi chimiche dei residui (spettrofotometria, XRD, X-RAY, analisi degli amminoacidi, degli altri residui organici, etc.) e confrontate con considerazioni di carattere ergonomico, tecnologico etc. Ovviamente tutto ciò va applicato sia al contesto archeologico che a quello di produzione sperimentale.

Applicando il tanto famigerato principio dell’attualismo possiamo interpretare le tracce lasciate sulle superfici dei manufatti, i loro rapporti spaziali e le loro sinergie con gli altri reperti (ossa, buche di palo, focolari, macchie di ocra) ricorrendo al confronto con i dati che riscontriamo attraverso processi di ricostruzione del fenomeno.

Grazie all’applicazione della comparazione sperimentale è possibile risalire all’indagine sistematica delle relazioni fenomenologiche (Bondioli et al. 1990) intrinseche ed estrinseche all’oggetto. Il manufatto viene quindi visto come il contenitore dei fenomeni culturali, qualcosa che ha subito un divenire di interventi successivi.

Dal momento della causa prima: la necessità di risolvere un fatto contingente, al processo che porta all’ottenimento del risultato finito (staccare delle schegge o lame, trasformarle eventualmente in manufatti ritoccati, e macellare l’animale appena cacciato).

L’ausilio dell’etnografia e l’applicazione dei dati in ambito etnoarcheologico sono altrettanto ineluttabili. Per dirla con il grande Binford (1983) l’osservazione delle dinamiche di formazione ed organizzazione della realtà materiale da parte delle società contemporanee permette di osservare e identificare le variabili più rilevanti per lo studio dei fenomeni archeologici.
Va in ogni caso tenuto ben presente che il controllo dei dati archeologici con quelli sperimentali viene effettuato su situazioni create artificialmente e su basi induttive, che sono necessariamente limitate per la difficoltà di controllare tutte le variabili in gioco e per l’evidente impossibilità ricostruire le esatte condizioni dello svolgimento delle operazioni del passato.

L’Archeologia sperimentale:

  • si avvale di alcune fondamentali situazioni empirico-sperimentali

Situazioni di campo

  • Grande interazione con i sistemi naturali non completamente controllata esperimenti condotti all’aperto: abbattimento di un animale, depezzamento, macellazione, trattamento pelle, etc.

Situazioni di laboratorio

  • Situazioni a parametri più controllati condotte artificialmente spesso con tempi accelerati e su scala non reale: riproduzione meccanica di gesti conformità negli angoli di penetrazione, costanza nell’intensità delle forze applicate etc.
Guardati con occhi diversi, dei semplici oggetti in selce contengono un tesoro: le informazioni che sono scritte su di loro attraverso un linguaggio che può essere interpretato attraverso i dati dell'Archeologia sperimentale.
Laura Longo
Archeologa, Conservatrice della Preistoria, Museo Civico di Storia Naturale di Verona

Prova di taglio con un’accetta litica

Quanto tempo serviva per abbattere un albero con un'accetta litica?

Lo scopo dell’esperimento era abbattere un albero di olmo necessario alla costruzione di un arco. 
La domanda che da sempre ci siamo posti è: quanto tempo occorreva ad un nostro antenato neolitico per abbattere un albero?
Il nostro albero aveva un diametro di circa 15 cm, mentre l’accetta utilizzata per l’esperimento è stata immanicata su di un supporto ligneo, più precisamente quercia bianca. La lama era stata realizzata in serpentino e fissata con tendine e collagene. L’utensile si è dimostrato molto efficace, naturalmente con un simile attrezzo non possiamo lavorare come con una moderna ascia in metallo.
Anziché un colpo energico, con questo tipo di ascia ne servono almeno tre e piuttosto delicati, l’incisione operata nel legno sembra assomigliare ad una (rosicchiatura) di castoro.
Come residuo della operazione di taglio, abbiamo non scaglie né schegge, ma una segatura abbastanza fine, derivata dall’azione di asportazione dovuta alle centinaia di colpi inferti all’albero. 

 

Tempi e osservazioni

Il tempo totale impiegato per il taglio è stato di 49 minuti.
Angolo di inclinazione dell’immanicatura: 85°
La lama in serpentino non ha necessitato di affilatura durante la lavorazione.
Il punto di inserzione dell’ascia nel legno e la relativa legatura in tendine non hanno subito danni durante l’uso.

Ötzi, l’uomo del Similaun

Una delle più sensazionali scoperte di età preistorica è indubbiamente quella dell’uomo del Similaun, noto internazionalmente col nome di Otzi, dal nome delle Alpi sul versante austriaco. Si tratta di una mummia rinvenuta nel 1991 nei pressi del rifugio Similaun sulle Alpi Venoste a 3210 m di quota, emergente dall’acqua di fusione del ghiaccio sul fondo di una conca rocciosa.

Una consistente serie di datazioni radiometriche indicano un’età della mummia compresa tra 3.360-3.100 a.C. Sicuramente di sesso maschile, di età stimata intorno ai 46 anni, da vivo doveva essere alto circa 1,60 m con un peso sui 50 Kg, aveva occhi azzurri, capelli ondulati di colore castano scuro, di lunghezza superiore ai 9 cm e, con tutta probabilità portava la barba.

Una concentrazione di arsenico sui capelli indica che avrebbe partecipato ad attività metallurgiche. Le articolazioni sono usurate, i vasi sanguigni fortemente calcificati indicano un alto tasso di colesterolo; negli ultimi mesi di vita pare aver subito un forte stress. I polmoni sono anneriti dal fumo, probabilmente per aver passato molto tempo vicino al fuoco; aveva un parassita nell’intestino che provoca attacchi di dissenteria. È inoltre privo della dodicesima coppia di costole e dei denti del giudizio; presenta un diastema tra gli incisivi superiori e un elevato grado di usura dei denti imputabile al tipo di alimentazione e, forse, al loro uso per lavorare materiali come pelle, tendini, osso o legno; in compenso non aveva carie.

Sul suo corpo sono stati individuati oltre 60 tatuaggi di colore bluastro, una loro funzione terapeutica è stata ipotizzata considerandone la concentrazione in corrispondenza di articolazioni affette da artrosi, interessante il fatto che si tratta di punti corrispondenti a quelli in cui anche oggi è praticata l’antica tecnica dell’ago puntura.

Alla sua morte era completamente vestito; indossava: una tunica confezionata alternando strisce chiare e scure di pelli di capra domestica, cucite con fibre di tendini animali e rammendata più volte con fili d’erba; sotto due gambali, anch’essi in pelle di capra fissati da lacci a una cintura e da linguette alle scarpe; la cintura è una striscia di cuoio di vitello con una piccola tasca, una sorta di marsupio, in cui erano contenuti alcuni manufatti in pietra e un fungo d’esca con tracce di pirite che ne confermano l’uso per accendere il fuoco; un perizoma in pelle di capra; un berretto di pelliccia di orso; calzature con un rivestimento esterno in pelle di cervo e una imbottitura di erba secca racchiusa da una rete.

Altri oggetti facenti parte del suo corredo sono: un pugnale con lama in selce e immanicatura in legno di frassino; due pezzi di poliporo delle betulle, un fungo con proprietà antibiotiche ed emostatiche; un recipiente cilindrico in corteccia di betulla interpretato come portabrace; una gerla; un’ascia di legno di tasso con una lama in rame incollata con catrame di betulla e legata con stringhe di pelle; un arco in legno di tasso non ancora finito; una faretra in pelle di camoscio che conteneva dodici frecce non finite ricavate da getti di viburno già scortecciati ma non levigati, e due finite con punta in selce.

In merito alle cause della sua morte, dopo dieci anni dal suo ritrovamento, è stata individuata, grazie ad alcune radiografie del torace, una cuspide di freccia in corrispondenza della spalla sinistra a soli 15 mm dal polmone; colpito alle spalle, è morto dissanguato. Pare che abbia sostenuto anche una colluttazione prima di morire, una profonda ferita da taglio sulla sua mano destra è da connettere a un tentativo di bloccare un colpo di coltello, gli sono state poi rilevate fratture sulle costole e sul naso. Su una delle due frecce finite, sull’arco, sul pugnale e sull’ascia sono state inoltre evidenziate tracce di sangue di quattro persone diverse.

Le pitture rupestri (Paleolitico Superiore 35.000-10.000)

Nel Paleolitico la pittura veniva praticata sia su piccoli oggetti (arte mobiliare), per esempio su ciottoli, sia sul corpo, sia sulle pareti rocciose (arte parietale o rupestre).

Le pitture rupestri sono pitture dipinte sulle pareti di grotte risalenti alla Preistoria a partire dal Paleolitico. Nelle stesse grotte sono stati anche rinvenuti graffiti rupestri. I colori conosciuti nel Paleolitico erano limitati a quanto si poteva reperire in natura: per dipingere venivano utilizzati dei minerali, per esempio per l’ocra rossa veniva impiegata l’ematite e per il giallo la limonite, mentre per il nero era facile reperire del carbone vegetale e addirittura guano di pipistrello rinvenuto direttamente in grotte e caverne. Il bianco si poteva ricavare dalle ossa calcinate. Si usavano anche mirtilli schiacciati per ottenere un colore simile al blu scuro e inoltre sangue di animali morti.

Le tonalità dell’ocra possono essere alterate con il calore, riuscendo così ad ottenere diverse sfumature. I coloranti probabilmente venivano ridotti in polvere, ne può costituire prova il rinvenimento a Lascaux nella Francia sud-occidentale, di alcuni blocchetti con tracce di raschiamento, tre lame colorate di ocra rossa, pestelli e mortai. La polvere ottenuta doveva essere poi miscelata con grassi di animali, cera d’api o sostanze liquide: per la grotta di Lascaux è stato prospettato l’uso dell’acqua ricca di carbonato di calcio della grotta. Per l’applicazione del colore potevano essere usati pennelli costituiti da fibre vegetali o animali; inoltre, è documentata la pratica di soffiare sulle pareti il pigmento ridotto in polvere.

Le parti più profonde delle cavità venivano illuminate con dei fuochi, attestati da resti di carbone sul suolo di numerose grotte e da tracce di fumo sulle pareti forse lasciate anche da torce. Sono state trovate una notevole quantità di lucerne, a Lascaux sono conservanti addirittura residui di carbone di legno di ginepro. In questa grotta, una serie di fori e sporgenze lungo le pareti ha fatto supporre la costruzione di impalcature.

Tra i più noti siti con pitture rupestri del Paleolitico:

  • Lascaux, Montignac (Francia)
  • Grotta del Genovese, sull’isola di Levanzo (TP)
  • Grotte dell’Arco, Bellegra (RM)
  • Grotta de La Marche, Lussac-les-Châteaux (Francia)
  • Font de Gaume (Francia)
  • Grotta Chauvet, presso Pont d’Arc (Francia)
  • Grotta di Altamira (Spagna)
  • Grotta Cosquer (Francia)

Tra i siti con pitture rupestri più recenti in Italia:

  • Grotta dei Cervi, Porto Badisco (LE)
  • Balma dei Cervi, a Crodo (VB)Per il bianco si pot