Una branca dell’archeologia, l’archeologia sperimentale, esercitata da alcuni decenni in Italia, si occupa di ridare un significato materiale e pratico agli “apparenti” enigmi che affiorano da gli scavi.
L’archeologia sperimentale opera in particolar modo nel settore preistorico dove le tracce delle culture passate sono più labili e di conseguenza l’interpretazione stenta a trovare delle spiegazioni plausibili, infatti la verifica delle ipotesi tramite sperimentazione e simulazione delle gestualità che hanno portato alla formazione di un fenomeno o alla produzione di un oggetto, permettono di cogliere validi elementi in aiuto allo studio delle culture passate.
Le “fosse di combustione” sono particolari strutture che sono rinvenute tutt’oggi in molti siti europei, in particolar modo in Francia, datate tramite le datazioni radiometriche non calibrate, tra la fine del V e la fine del IV millennio a.C., fasi media e finale del Neolitico.
Le fosse sono scavate nel suolo, hanno forma rettangolare, circolare o ellittica con profondità che varia da 20 a 40 cm, la lunghezza oscilla tra 1.5 e 11 mt. mentre la larghezza tra i 1 e 2.5 mt. Le pareti interne delle cavità mostrano forti segni di rubefazione e al loro interno è presente una stratificazione, costituita in successione da: uno strato di terreno scuro con molti frammenti di carbone, da un sottostante strato di ciottoli con evidenti segni di termoclasi e adagiati sul fondo ci sono i resti di tronchi carbonizzati disposti longitudinalmente.
Quello che appare chiaramente è che queste strutture erano strettamente legate all’utilizzo del fuoco, da cui deriva appunto il nome “fosse di combustione”, ma che cosa si ottenesse con questa pratica, che include una serie di azioni complesse e standardizzate come dimostrano le stratificazioni, non è affatto di semplice interpretazione. Frequentemente gli archeologi le hanno interpretate come forni per la cottura degli alimenti oppure come strutture per la tostatura ed essiccazione dei cibi, mentre un possibile uso quali resti di strutture abitative è stato escluso quasi totalmente visto l’assoluta mancanza di stratificazioni e reperti tali da poter avvalorare una simile ipotesi.
In particolare questa ricerca ha preso avvio dall’analisi delle tre “fosse di combustione” rinvenute nel sito neolitico di Mileto (Sesto Fiorentino – Firenze) durante lo scavo archeologico condotto dalla Prof.ssa Lucia Sarti e dal Prof. Fabio Martini.
I ricercatori spinti dal particolare interesse del rinvenimento e dal desiderio di comprenderne la funzione hanno effettuato analisi chimiche, rilevando che all’interno delle fosse la temperatura ha raggiunto i 700-800°, inoltre non hanno riscontrato alcuna traccia di sostanze organiche e inorganiche derivate dalla cottura di cibi.
Questi due dati, assieme ad un’attenta analisi stratigrafica, hanno portato gli archeologi a ritenere che le fosse di Mileto potrebbero essere collegate alla produzione della ceramica.
La dimostrazione sperimentale messa in atto (tesi di laurea dello scrivente e coordinata dalla Prof.ssa Nicoletta Volante) doveva ricostruire il procedimento che ha originato le“fosse di combustione”; così in base all’analisi di tre dati archeologici molto importanti e identificativi per le strutture prese in esame, cioé il piano in ciottoli, i carboni sottostanti e lo strato carbonioso collocato sopra i ciottoli, è stato stilato un protocollo alla base del procedimento sperimentale.
Dall’analisi di questi tre strati sono emerse alcune considerazioni: se i carboni rinvenuti sul fondo delle fosse hanno grandi pezzature, probabilmente il fuoco veniva preparato con legna di dimensioni considerevoli affinché l’energia termica sprigionata durasse a lungo, inoltre se il letto di ciottoli rinvenuto sopra questi carboni avesse avuto la funzione di isolante termico, allora questo potrebbe indicare che il materiale postovi sopra, almeno nelle fasi iniziali di cottura, non necessitava di temperature molto elevate; per finire lo strato carbonioso sopra i ciottoli sembrerebbe essersi creato in seguito ad una seconda e intensa attività di combustione.
Conseguentemente si è cercato di individuare il tipo di materiale più idoneo a soddisfare le esigenze emerse dalle nostre considerazioni, e c’è sembrato plausibile orientare la sperimentazione verso la cottura dell’argilla per la produzione di fittili.
L’argilla, per non incorrere a rotture nelle fasi iniziali di cottura, necessità di assorbire la temperatura in modo graduale e lento per far evaporare l’acqua d’impasto residua.
Tale necessità potrebbe essere assolta dall’acciottolato, che fungendo da piano d’appoggio per i fittili da cuocere e da isolante di questi dalle braci, determina la cosiddetta “fase di preriscaldamento”, propagando per conduzione e irraggiamento, parte dell’energia calorica sviluppata dai sottostanti carboni vivi.
L’ipotesi di un simile utilizzo delle fosse spiegherebbe anche una serie d’altre tracce riscontrate sui ciottoli e sulle pareti delle cavità; in primo luogo l’azione del fuoco creava la rubefazione del fondo e delle pareti mentre le pietre dell’acciottolato a contatto con il fuoco si fessuravano per termoclasi, per finire l’ultimo straterello, composto da terreno molto scuro contenente ceneri e frustoli di carbone, potrebbe, nell’ottica di quest’ipotesi, spiegarsi come traccia residua di quella che può a tutti gli effetti essere la cottura vera e propria.
L’argilla deve essere esposta a temperatura superiore ai 550° – 650° per trasformarsi irreversibilmente in ceramica, ragion per cui potrebbe essere stato necessario esercitare un fuoco sopra lo strato di ciottoli a diretto contatto dei fittili (il tutto dopo la fase di preriscaldamento di questi) e in questo modo si potrebbe anche giustificare la presenza dello strato carbonioso sopra all’acciottolato.
Per la fase di cottura abbiamo ripreso una serie di studi d’archeologia sperimentale francesi e dei confronti etnografici sulle cotture che sono chiamate a “catasta”, procedimento che prevede la disposizione dei vasi all’interno di una catasta di Particolare dell’acciotolato di una delle fosse di Mileto.
Il legname, inoltre per rendere la sperimentazione più realistica abbiamo realizzato oltre 50 vasi che riproducono forme, materiali e decorazioni preistoriche.
Le prove sperimentali eseguite sono servite a far emergere una possibile e reale coerenza tra la stratigrafia archeologica (strati di carboni, ciottoli e ancora carboni) e l’ipotesi d’utilizzo delle fosse per la cottura della ceramica riproponendo, attraverso le fasi più importanti di tale produzione, il “preriscaldamento” carbone e ciottoli- e la “cottura” -strato superiore di carboni, la sequenza di azioni che ha plausibilmente potuto generare il processo di stratificazione.
Dopo circa 2-3 mesi, al fine di esaminare le tracce lasciate dalle sperimentazioni abbiamo effettuato lo scavo delle nostre fosse di combustione seguendo la normale prassi archeologica.
Questa verifica ha permesso di documentare e confrontare materialmente i segni lasciati sul terreno, anche se il periodo trascorso tra i test e lo scavo è irrilevante considerando le reali tracce archeologiche.
Uno dei test eseguiti ha fornito degli elementi significativi restituendo un buon numero di fittili integri, lasciando significative tracce sul terreno e mostrando una similitudine con i resti archeologici di “fosse di combustione” simili.
Queste osservazioni avrebbero potuto avvalorare la nostra ipotesi, ma in realtà hanno fornito una serie di dati che la rimettevano in discussione: infatti fra le tracce lasciate dai test si individuavano un cospicuo numero di piccole scaglie di ceramica, dovute alla rottura di alcuni vasi, assenti nelle strutture originarie.
La presenza di tali frammenti, che potrebbe anche essere stata accentuata dalla nostra imperizia nella procedura di cottura, è un importante indizio che costituisce un marker di produzione: infatti, frequentemente, scarti di produzione sono reperiti nei luoghi di cottura delle ceramiche.
L’assenza di simili markers nelle strutture di combustione originali, poteva essere dovuta alla grande efficacia e perfezione del processo di produzione ceramica, maè improponibile ipotizzare che non si verificassero mai degli errori durante la cottura e che simili tracce non si siano prodotte e/o conservate.
Questa considerazione fa propendere ad ipotizzare che tali strutture non fossero utilizzate come forni da ceramica, ma una serie di fattori contingenti legati alla nostra inesperienza nella cottura potrebbero aver impedito di formulare e ricreare un procedimento funzionale, standardizzato e pertanto convincente; al contrario dall’esame delle produzioni archeologiche e in base a studi etnografici su alcuni popoli indigeni dediti tutt’oggi alla produzione di cerami-ca, è possibile dimostrare che i processi di produzione seguono cicli disciplinati da regole precise e inalterabili maturate da generazione in generazione.
Pertanto oggi risulta difficile mettere in pratica dei procedimenti produttivi teorizzati non avendo quel bagaglio di nozioni empiriche ma funzionali che i nostri predecessori attuavano durante i vari processi di produzione.
In questo senso, l’utilizzo dell’archeologia sperimentale fornisce sia elementi d’immediata valutazione per l’ipotesi da verificare, sia delle esperienze pratiche che permettono allo studioso di acquisire delle conoscenze tecnico-empiriche sulle quali poter formulare nuove ipotesi di sperimentazione più efficaci.
Nonostante il fatto non si sia trovata una possibile coerenza di tali strutture con la cottura della ceramica, nel mettere in atto le sperimentazioni é stato possibile cogliere alcuni aspetti pratici e morfologici sui quali avanzare delle ipotesi o cogliere nuovi spunti per future sperimentazioni.
Floriano Cavanna